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Liquidità sui conti: qual è la giusta proporzione?

DOMANDA

Sono un private banker dipendente che sta valutando il passaggio in una rete di consulenza.

Ho letto su Citywire la classifica delle reti per masse in liquidità.

Mi ha colpito la significativa differenza che c’è tra le reti, si va dal 4% a più del 30%.

Da cosa dipende e, soprattutto, è un indicatore di possibile differenza in termini di modello di servizio?

RISPOSTA

L’osservazione è molto interessante e acuta in quanto in tutte le realtà a guidare dovrebbe essere la pianificazione finanziaria che suggerisce di lasciare sempre in liquidità quella parte di denaro necessario ad affrontare le spese correnti e gli imprevisti non assicurabili in un orizzonte temporale di breve termine.

Questa “regola” vale per qualsiasi cliente, ciò che varia è l’entità e, di conseguenza, la percentuale sull’intero patrimonio.

Per un cliente che possiede 3 milioni di euro il 10% corrisponde a 300.000 euro, somma probabilmente eccessiva per far fronte alle spese correnti a 6/12 mesi. La stessa percentuale, equivalente a 10.000 euro, per un cliente che dispone di 100.000 euro è adeguata, se non sottostimata, forse 15.000/20.000 euro in liquidità potrebbero essere motivati anche in termini “psicologici” visto il modesto patrimonio totale.

Si potrebbe quindi pensare che nelle reti dove la liquidità è maggiore ci siano clienti meno facoltosi. Non è così, ci sono altre variabili che incidono quali:

  • un’offerta di tasso sulle giacenze sul conto
  • depositi vincolati a 6/12 mesi remunerati al cliente
  • la remunerazione o meno per i cf sulle giacenze in conto corrente
  • reclutamenti di nuovi cf che trasferiscono liquidità derivante da disinvestimenti
  • una specializzazione dei cf nell’area investimenti condividendo il cliente con altri intermediari per il banking e la liquidità.

Questo a livello di azienda.

Per quanto riguarda il singolo cf, in ogni rete esistono consulenti più avvezzi a gestire momenti di mercato ad alta volatilità o fasi di ribassi mantenendo la rotta verso gli obiettivi condivisi col cliente e consulenti, maggiormente orientati al market timing, che lavorano più sulla tattica di breve periodo che sulla strategia di lungo termine cercando di entrare e uscire dai mercati nei momenti migliori.

Infine, per rispondere al lettore, possiamo dire che tutte le aziende propongono e formano la rete affinché la pianificazione finanziaria, che a me piace chiamare “organizzazione del benessere economico”, sia l’approccio corretto verso il cliente.

Non tutti i consulenti però sono orientati in tal senso e, senza esprimere giudizi su cosa sia più giusto, anche questo è una dimostrazione della libertà di pensiero e azione del consulente finanziario.

Articolo a cura di Marina Magni pubblicato su citywire.

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